Il mio peccato
“Un dio noioso e cattivo imparato andando a dottrina, come un arbitro severo fischiava tutti, perché?” cantava Luca Carboni in Silvia lo sai. Anche i preti lo insegnavano così al catechismo, un dio giudice, pronto a contare i peccati e a darci ammonizioni.
Così, fin da bambino, avevo imparato che i peccati, di qualunque natura fossero, pesavano sull’anima, e che dopo l’assoluzione l’anima si alleggeriva davvero. E io mi sentivo più leggero. Giuro! Quel prete che “purificava” l’anima era meglio di uno psicologo, e in più era gratis.
“La carne è debole” dicevano, e non solo la mia, ma quella di tutti. Ma i confessori, con il tempo, caddero in disgrazia. Le loro raccomandazioni sembravano sempre più vuote, senza senso, in un mondo sempre meno periferico, sempre più globalizzato. Così smisi di andare in chiesa. Ma non smisi di parlare con Dio. Che c’entrava Lui? Io ero ancora buono, ne ero certo, e perciò avevo diritto a una conversazione diretta con Lui.
Ora, però, quando mi sentivo in colpa, non c’era nessuno a dirmi “vai in pace”, nessuna voce ad assolvermi. Sentivo soltanto il peso del rimorso, e il silenzio di Dio, che non rispondeva. Ho cominciato allora a pregare disperato, a gridare dentro di me: “Perdonami, perché ho peccato in pensieri, parole, opere e omissioni.” Poi, tra il bisogno di una risposta e la speranza di sentire qualcosa, ho iniziato a immaginare una voce indulgente che mi perdonava quasi tutto. Ma non era pazzia, era una forma di sollievo, forse l’unico che mi restava.
Col tempo ho capito una verità scomoda: in fondo, ci perdoniamo tutto, perché altrimenti vivere sarebbe impossibile. O come potrebbe vivere, ad esempio, chi ha combattuto una guerra? “Obbedivo a ordini superiori”, “l’ho fatto per necessità”: ci diciamo frasi così per autoassolverci. È incredibilmente facile, alla fine, darsi il proprio perdono.
Ma allora mi sono chiesto se riconoscere i propri peccati è autentico solo quando l’uomo ne soffre davvero, o se l’anima porta i suoi segreti e accetta il suo castigo in silenzio. Mi sono chiesto se la nostra pratica religiosa ha senso solo se è accompagnata da un’assoluzione vera, senza inganni. Perché l’importante, ho capito, è non barare con Dio.
Poi un giorno, un giorno di fine inverno, ho pregato ancora, disperato, e ho avuto una risposta. Leggendo un racconto, ho trovato queste parole: “Il libero arbitrio è questo. Una scelta, tra ciò che è bene e ciò che non lo è. Nessuna interferenza, nessun appello.” Ho pianto. Ho pianto davvero. E poi ho chiesto, quasi implorando: “Allora… mi assolvi?”
E la risposta è stata chiara: “Io assolvo la tua anima… tu devi assolvere te stesso.”
E così ho scoperto che non è facile perdonarsi, che non lo è affatto. Siamo più indulgenti verso gli altri che verso noi stessi. E se è vero che, come dice qualcuno, “il passato è passato,” io purtroppo non posso dire lo stesso del futuro, non posso immaginarlo. E quella voce dentro di me che continua a gridare, la voce della mia coscienza, è come una goccia che scava un solco nella carne viva.
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